Sicuramente avrete già sentito dire questa espressione, oppure siete stati voi stessi a pronunciarla per indicare perplessità rispetto ad una situazione assurda in cui siete impelagati. Ma chi era ‘a zite de Puzane? E perché la si tira in causa in circostanze simili? Ecco qui una divertente spiegazione.

“Agghje remaste com’a zite de Puzane”

Chi era la zite de Puzane

La storiella che dà origine a questo modo di dire tutto tarantino è ambientata a Pulsano, un paese a circa 15 km dalla città. Durante un corteo nuziale, la sposa era sul punto di varcare la soglia della chiesa in cui doveva tenersi il rito, ma rimase bloccata all’ingresso perché la porta era troppo bassa.

Immaginatevi la scena: la donna di bianco vestita, invece di fare la sua entrata trionfale fra gli sguardi ammirati e commossi dei parenti, se ne stava lì, imbarazzata e impacciata, perché non sapeva come fare a raggiungere l’altare.

Quella porta troppo bassa sembrava un ostacolo insormontabile creato apposta per impedire il lieto evento, manco fosse stato premeditato da una suocera contrariata.

Il corteo nuziale si inceppò dinanzi alla chiesa. Tutti coloro che assistevano all’evento, parenti e non, fecero proposte per ovviare all’inconveniente e far cominciare la cerimonia.

Il consiglio prevalente era quello di colpire a picconate la porta per renderla adeguata all’ingresso della sposa, quando qualcuno – un vero genio – si fece largo fra la folla e sollecitò la donna a chinare il capo quel tanto che bastava per accedere in chiesa.

Grazie all’illuminante proposta del nostro Einstein – scommetto che voi non ci avreste pensato, vero? –  la sposa entrò in chiesa e la cerimonia si celebrò.

Da questa storia assurda ha origine l’espressione “Agghij remaste com’a zite de Puzane”, cioè inceppata per uno stupido e improvviso impedimento.

fave della prima moglie

Le fave della prima moglie

“Le fave d’a prime mugghiere”

Anche stavolta, una storiella spiegherà tutti i retroscena di questo modo di dire diffuso a Taranto.

Un contadino era sposato con una donna che preparava le fave – le nostre sublimi fave bianche – in un certo modo. Rimasto vedovo, il contadino sposò un’altra donna che cuoceva le fave in una maniera diversa, che non era conforme al gusto del marito.

Lo spettro della defunta aleggiava ovunque perché l’uomo coglieva ogni occasione per rimpiangere lei e la sua cucina. Finché, un giorno, la nuova compagna lasciò le fave a cuocere per troppo tempo sul fuoco, tanto che si bruciarono e rimasero incollate sul fondo della pignatta.

La sbadata donna – che potrebbe benissimo essere una mia antenata – tentò di recuperarle alla bell’e meglio e le servì al marito all’ora di pranzo.

L’uomo notò immediatamente la differenza…nel senso che le gradì moltissimo, le trovò eccellenti. Quel piatto di fave aveva un sapore identico a quelle che era solita preparargli ‘a prime mugghiere.

Quel certo “non-so-che”, quel retrogusto di carbonizzato, aveva positivamente colpito il nostalgico contadino e degnamente evocato la memoria della defunta.

La morale della storia? Sui gusti non si discute e…ogni cuoco ha il suo ingrediente segreto!

Fonti:
“Taranto…tarantina. Contributo allo studio delle tradizioni popolari” di Cosimo Acquaviva

Commenta con Facebook!